Avrò avuto sei anni quando, spulciando l’atlante europeo, passai col dito sulle mappe della Jugoslavia titina e rimasi colpito dal nome Bosnia-Herzegovina, così strano musicalmente alle orecchie di un bimbo italiano. Un nome che divenne sinonimo di meta prossima eppure esotica, non distante ma comunque collocata in un Altrove; etnico, architettonico, a quell’epoca anche ideologico. Del resto, nell’immortale poesia dedicata Il Viaggio, Charles Baudelaire inizia dicendo: “Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe, l’universo è pari al suo smisurato appetito”. Da questa suggestione infantile, è scaturita una passione ormai più che quarantennale. Mi interessai fin dalla più tenera età a quella regione minuscola eppure traboccante di cultura, di incroci etnici, di dialogo e solidarietà, quel piccolo miracolo di concordia religiosa. Sarajevo, in particolare, “Gerusalemme d’Occidente”, città in cui in una passeggiata di poche centinaia di metri si incontrano una Sinagoga Ashkenazita, la Cattedrale Ortodossa della Natività di Gesù, la Cattedrale Cattolica del Sacro Cuore e due moschee, quella che reca il nome della zona ottomana della Baščaršija e quella più importante della Bosnia, che reca quello di Gazi Husrev-Beg, il bey fondatore della città.
Sarajevo, crocevia di culture e tragico teatro della storia, evoca immagini di convivenza interreligiosa e di conflitti fratricidi. La città, Gerusalemme d’Occidente, è stata testimone di eventi che hanno segnato il corso del XX secolo, in particolare l'attentato all'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, e di sua moglie Sofia il 28 giugno 1914. Questo evento, scatenante la Prima Guerra Mondiale, si intreccia con la storia di Gavrilo Princip, il giovane nazionalista serbo-bosniaco autore dell'attentato.
Sarajevo: Un Mosaico di Culture e Religioni
Sarajevo si distingue per la sua ricca storia e la sua diversità culturale. La città è un crocevia di religioni, con sinagoghe, cattedrali ortodosse e cattoliche, e moschee che coesistono pacificamente.
A questa storica commistione, a questo affascinante “bisticcio etnico”, come lo avrebbe chiamato Carmelo Bene, si aggiunga la formula proverbiale della Jugoslavia comunista del Dopoguerra: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito!”. Un potere dittatoriale, quello del Maresciallo Josif Broz Tito, necessariamente violento, eppure ora vista con nostalgia, un’icona vintage tra folklore e cultura pop; si vendono magliette con la sua immagine e la scritta “Yugo Boss”, a scimmiottare il brand di moda, come ovunque appare Vučko, la mascotte delle Olimpiadi Invernali tenute a Sarajevo nell’84, vertice propagandistico della Jugoslavia unita. Personalmente, da amante dello sport, non posso che rimpiangere il potenziale impressionante che le nazionali jugoslave, pensiamo solo al calcio e al basket, hanno smarrito a causa della dissoluzione politica.
L'Attentato di Sarajevo: Una Scintilla nella Polveriera Europea
L'attentato di Sarajevo è un evento complesso, frutto di una serie di circostanze fortuite e di tensioni politiche latenti. L’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Asburgo, aveva serie intenzioni di concedere una sorta di indipendenza federale alle istanze serbe, ma gli attentatori (congiurati dei movimenti Mlada Bosna, “Giovane Bosnia”, e Crna Ruka, il movimento ultranazionalista panslavo “La Mano Nera”) non lo sapevano. Altra coincidenza fatale: per celebrare l’anniversario di nozze l’Arciduca e Sofia scelsero Sarajevo perché, essendo lontano dalla corte, era l’unica possibilità per farsi vedere in pubblico come coppia, unita da matrimonio morganatico; peccato che la visita coincideva con un altro fatidico anniversario, in un calendario diverso: Il 28 giugno non era solo una data qualsiasi per i serbi, corrispondeva al 15 giugno secondo il calendario giuliano, ricorrenza religiosa del martirio di San Vito, celebrato in Serbia come Vidovdan.
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Dunque, nella mente esaltata degli attentatori, uccidere l’Arciduca rappresentava, simbolicamente quanto insensatamente, un atto di rivolta contro l’ordine costituito e un ideale vendetta storica. L’attentato in realtà fallì: fu tirata una granata che mancò il bersaglio, ferendo degli astanti. Quando l’arciduca ne fu informato, in maniera concitata chiese di voler visitare i feriti (come testimoniato dalle immagini storiche riprese sulle scale della Vijecnica), quindi cambiò il percorso della visita ufficiale: qui interviene l’elemento imponderabile che determina la Storia.
La dinamica dell'attentato è segnata da una serie di coincidenze incredibili. Dopo un primo attentato fallito, l'auto con a bordo Francesco Ferdinando e Sofia imbocca per errore una strada sbagliata, fermandosi proprio davanti a Gavrilo Princip.
Riflettere su come la Prima Guerra Mondiale sia scoppiata per questa circostanza inverosimile, oltre tutto tra paesi governati da cugini che si volevano molto bene (il Kaiser Guglielmo II di Germania, re Giorgio V del Regno Unito, e lo Zar Nicola II di Russia erano tutti nipoti della regina Vittoria del Regno Unito), indurrebbe anche il più convinto assertore del libero arbitrio a riconoscere il potere dei vincoli indissolubili di Ananke.
Gavrilo Princip: Un Giovane Rivoluzionario
Gavrilo Princip era un giovane nazionalista serbo-bosniaco, membro dell'organizzazione "Giovane Bosnia", che lottava per l'indipendenza della Bosnia-Erzegovina dall'Impero austro-ungarico.
Diabetico, aveva avuto un calo glicemico dopo che la bomba lanciata da Cabrilovic era finita sul tetto dell’auto di Francesco Ferdinando senza ferirlo. Il progetto di uccidere l’erede di Francesco Giuseppe sembrava fallito, perciò Gavrilo Princip era entrato in una panetteria a mangiarsi un panino per tirarsi su, e quando era uscito si era trovato di fronte proprio la vettura con l’arciduca e la moglie. Un calo di zuccheri, una strada sbagliata, un primo maldestro attentatore, due spari con la Browning e la storia che non passa la mano quel giorno a Sarajevo fece incrociare per non più di tre secondi due uomini, il giovane bosniaco e l’erede al trono degli Asburgo, che non potevano essere più diversi.
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Per Ivo Andric, che aveva conosciuto Princip e come lui aveva aderito alle idee dei giovani bosniaci nutrite di nazionalismo prima di staccarsene, Gavrilo e Francesco Ferdinando erano vittima e carnefice. Assegnando quei ruoli, Andric disegna un ordine morale all’interno delle emozioni, nota Jergović, ma cento anni dopo l’attentato quell’ordine non esiste più, come se il mondo fosse tornato ai tempi precedenti lo sparo di Gavrilo.
Francesco Ferdinando: Un Erede al Trono con Idee Federaliste
Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, era noto per le sue idee riformiste e per il suo progetto di trasformare l'impero in una federazione di stati autonomi, inclusi gli slavi del sud. Questa visione, sebbene progressista per l'epoca, non era condivisa dai nazionalisti serbi, che miravano all'unificazione di tutti gli slavi del sud in un unico stato sotto la guida della Serbia.
Francesco Ferdinando apparteneva all’altissima nobiltà europea, con tutta la sua freddezza, le sue durezze, la sua antipatia di fondo. E lui era realmente antipatico. Ma si innamora di una nobildonna che non è abbastanza nobile. Per di più ceca, della Boemia. Nonostante l’ostilità della corte, riesce a convincere l’imperatore e la sposa. Francesco Ferdinando ha un’idealità interessante. Capisce che l’impero multietnico e multinazionale è in crisi, pensa a una riforma innovativa: agli Stati Uniti della Grande Austria, governati da Vienna. Un’anticipazione, se vogliamo, dell’Unione Europea.
Il Panino di Gavrilo Princip: Un Dettaglio Fatale
Una versione dei fatti, quella raccontata da Miljenko Jergović ne L’attentato (Nutrimenti, 2021), Gavrilo Princip, che si era nascosto fra la folla per evitare il linciaggio dopo il primo mancato attentato, essendo diabetico soffre un calo di zuccheri, dunque, si rifugia in una panetteria per mangiare un panino. All’uscita, improvvisamente, si ritrova davanti l’Arciduca e la moglie, bloccati nel traffico. Un gioco da ragazzi.
Si racconta che Princip, dopo il fallito attentato con la bomba, si fosse rifugiato in una panetteria per mangiare un panino, a causa di un calo di zuccheri dovuto al diabete. Uscito dalla panetteria, si trovò casualmente di fronte all'auto dell'arciduca, bloccata nel traffico, e compì l'attentato. Questo dettaglio, apparentemente insignificante, sottolinea l'importanza del caso e delle circostanze nella storia.
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Le Conseguenze dell'Attentato
L'attentato di Sarajevo ebbe conseguenze catastrofiche. L'Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia, innescando una reazione a catena che coinvolse le principali potenze europee nella Prima Guerra Mondiale.
Vienna trasformò il sangue dell’arciduca in benzina per alimentare il revanscismo. L’ultimatum alla Serbia - umiliante, con clausole che di fatto annullavano la sua sovranità - fu scritto con la piena complicità di Berlino, convinta che la Russia avrebbe esitato ad intervenire. Ma si sbagliavano, e di grosso. Come falene irresistibilmente attratte dalla fiamma, le potenze europee corsero verso l’abisso: la mobilitazione zarista, il “Drang nach Westen” tedesco, l’invasione del Belgio neutrale. Entro il mese di agosto, l’Europa era diventata un immenso campo di trincee.
Quel colpo di pistola non solo scatenò la Grande Guerra, ma generò un vero e proprio terremoto geopolitico: gli Asburgo svanirono nel 1918, gli Ottomani si ritirarono in Anatolia e la Russia zarista implose nella rivoluzione. Al posto degli imperi sorsero stati-nazione fragili, portando con sé ferite territoriali (dai Sudeti al Corridoio di Danzica) che Hitler avrebbe riaperto solo vent’anni dopo.
Sarajevo Dopo la Guerra: Memoria e Rinascita
Nello sviluppo della guerra (1992-1995), Sarajevo fu anche il luogo dove si verificarono due ferite plateali a due dei pilastri della weltanschauung spirituale che già da adolescente avevo sposato: la memoria culturale e la bellezza. Mi riferisco ovviamente a quell’insulto innominabile all’umanità che sono stati gli stupri etnici e al plateale atto simbolico di cancellazione della memoria rappresentato dall’incendio della Vijecnica, la Biblioteca di Sarajevo, distrutta dai cetnici con mortai e cannoni durante un attacco notturno il 25 agosto del 1992, a cento anni dalla fondazione austroungarica. Un rogo in cui sono andati perduti circa due milioni libri, preziosi incunaboli medievali, un patrimonio non limitato alla cultura islamica, testimonianza di una miracolosa convivenza interreligiosa durata seicento anni.
Sarajevo ha subito pesanti distruzioni durante la guerra degli anni '90, ma ha saputo rinascere e ricostruire il suo tessuto sociale e culturale. La città è oggi un simbolo di resilienza e di convivenza pacifica tra diverse etnie e religioni.
Eppure, "dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva", come scrisse in una ormai abusata citazione Hölderlin. Proprio nella biblioteca distrutta, ora tornata ad essere Municipio e centro culturale, accadrà uno degli eventi più commoventi dell'ormai agonizzante Novecento: il 19 giugno 1994, tra le mura crivellate e le macerie, si terrà un memorabile concerto di musica classica, organizzato dall'Opera di Venezia e trasmesso in diretta con la collaborazione dell'UNHCR. Zubin Mehta aprirà il concerto, simbolico atto di resurrezione, con una scelta quasi obbligatoria per la solennità del momento: il Requiem di Mozart. L'Orchestra e il Coro di Sarajevo, che avevano perso tragicamente dodici elementi, sostituiti dai colleghi dell'omologa orchestra di Ljubljana, furono "allenati" per due mesi in preparazione dell'evento, dopo due anni di interruzione forzata delle attività, dal giovane direttore italiano Stefano Pellegrini. Un lampo di bellezza nei 1425 giorni di orrore dell'Assedio, preludio alla rinascita della citta.
Ancor più vero è, chiaramente, trent’anni dopo: Sarajevo è una città vivace, più pulita e sicura di una capitale scandinava, che mantiene un’allegria composta anche nei giorni del dolente ricordo; le strade dove sono ancora presenti i segni dei bombardamenti (le famose “Rose di Sarajevo”, ovvero i fori creati dai colpi di mortaio, riempiti di resina rossa per renderli simili a rose, in una meravigliosa applicazione del Kintsugi) sono invase da un sereno “struscio”, una perenne, spontanea edizione di Miss Sarajevo; ad esempio la centrale via Ferhadija che dall’elegante architettura austroungarica scivola senza soluzione di continuità nel labirintico caos del bazar della zona ottomana Baščaršija. Si tratta di un luogo cruciale, letteralmente: crocevia tra Oriente e Occidente, crocifisso dalla crudeltà degli uomini e risorto, in varie incarnazioni, nella bellezza delle sue moschee, delle sue chiese, dei suoi locali, delle sue donne, dei suoi simboli.